Marcianò, Leone XIV e il ritorno della Chiesa che non si vergogna della tradizione
Un nuovo vescovo a Frosinone
Per anni si è detto che la Chiesa dovesse “aprire”, “dialogare”, “modernizzarsi”, “accogliere tutto”, diciamo ad esempio, che le ultime deprecabili vicissitudini di don Biancalani hanno dato uno schiaffo in pieno viso a chi vuole accogliere incondizionatamente. Si è rincorso il consenso, piegato il linguaggio, ammansita la dottrina e ci si è genuflessi con religioni che derubricano la donna a una "cosa" da incartare e umiliare.
Finanche nelle scuole, serpeggia e striscia un filone per indottrinare verso altre religioni, che puzza di zolfo, perché dietro c'è chi vuole conquistare e distruggere Roma. Risultato? Chiese svuotate, e si domandano pure il perché. Vocazioni in calo, confusione dottrinale, con sermoni bislacchi. Poi, qualcosa è cambiato. In silenzio, ma in modo inequivocabile.
L’elezione di Papa Leone XIV, l’americano Robert Francis Prevost, ha segnato una rottura di stile, di linguaggio e di simboli di cartapesta. Non una restaurazione nostalgica, ma un ritorno al centro, al rito e al ritorno direi, soprattutto alla verità, alla liturgia sacra, alla figura del Papa come pastore senza fronzoli, ma in veste autentica.
E accanto a lui, in qualche modo, come figura coerente con questa visione, troviamo l’arcivescovo Santo Marcianò. Da tempo, silenziosamente fuori dal coro, oggi appare come una delle poche voci già allineate con ciò che Leone XIV sembra finalmente voler rimettere al centro: la Tradizione, senza sconti.
Il trono, il dipinto e il segnale che molti fingono di non vedere
Nella sua prima apparizione pubblica, Leone XIV ha fatto ciò che per molti anni era stato evitato accuratamente: si è seduto sul trono pontificio. Un gesto carico non di potere, ma di teologia e di forza. Non per vanità, ma per riaffermare che il Successore di Pietro è tornato, come tornò da Avignone, come custode della fede, non solo un moderatore di opinioni.
Lo ha fatto appunto sotto l’affresco del “Ritorno del Papato da Avignone”. Un messaggio fortissimo: la Chiesa deve tornare a Roma, non solo geograficamente, ma spiritualmente. Basta fughe nel relativismo, basta sottomissioni al mondo. È finita l’epoca in cui si chiedeva scusa per ogni verità scomoda del Vangelo.
E mentre tanti improvvisano, Marcianò ha già scelto da tempo
L’arcivescovo Marcianò non è diventato “tradizionale”, perché va di moda o per reazione politica. Lo è sempre stato. Nelle caserme, nei teatri di guerra, nei suoi discorsi sobri ma netti, ha custodito una fede integra, maschia, radicata, non sentimentale né sociologica. E ora approda a Frosinone, la città che ha come patroni due papi.
Marcianò non si è mai lasciato sedurre dal linguaggio fluido delle pastorali arcobaleno. Non ha mai banalizzato la liturgia per farla “più accessibile”.
Non ha mai trattato la dottrina come un’opinione tra le tante.
In un mondo ecclesiale spesso afflitto da insicurezze e complessi d’inferiorità culturale, Marcianò ha scelto la via più difficile: quella della fedeltà. Invocare la povertà, non significa demolire le cattedrali, svuotarle, anche di significato e arrivare a situazioni drammatiche come in Francia, dove 350 chiese sono state incendiate. Se non siamo noi cristiani ad avere cura delle chiese, come potrebbero rispettarle gli altri.
Una Chiesa che torna a dire “no”
Leone XIV e figure come Marcianò stanno dimostrando che una Chiesa che non sa dire “no” non serve più a nessuno. Se tutto è accoglienza, invadendo, distruggendo un luogo di culto per molti anni, dove nemmeno si celebra come nella chiesa dove è parroco Biancalani è un'offesa alla fede. Se ogni peccato diventa esperienza, se ogni errore è solo “diversità”, allora il Vangelo che senso ha? Il compito di un pastore non è quello di rendere felici le coscienze, ma di svegliarle, scuoterle, convertirle. Dovrebbe esserci meno spazio per falsi profeti o pretuncoli che hanno preso i voti con i bollini del supermercato.
Tradizione o tradimento?
La posta in gioco non è estetica, non è ideologia. È spirituale. La domanda che Leone XIV ha posto — non a parole ma coi fatti — è questa: vogliamo ancora essere cattolici, o vogliamo solo piacere al mondo?
Marcianò, senza proclami, ha già risposto. La sua vita, la sua liturgia, la sua parola sono un rifiuto della pastorale debole, fluttuante, priva di colonna vertebrale. E oggi, finalmente, quella sua coerenza lo rende un faro in un tempo ecclesiale ancora troppo indeciso. Sí lo sappiamo, cercheranno di distoglierlo dalla comunità locale, sussurrandoli nell'orecchio che bisogna occuparsi dell'Africa e solo dell'Africa. Speriamo che egli invece ci guardi non solo come cartonati o figurine scialbe, ma come esseri umani, poiché esistiamo anche noi!
Conclusione: fine del buonismo clericale?
Forse la stagione dell’ambiguità è finita. Forse potremo smettere di confondere i poveri con gli spacciatori, gli aggressori e gli assassini. Forse potremo smettere anche di confondere il disagio sociale, con volontà di depredarci, strumentalizzando una cittadinanza. E Forse si apre una nuova epoca in cui la fedeltà non sarà più vista come rigidità, ma come carità autentica. In questa prospettiva, l’azione pastorale di Marcianò non è solo apprezzabile: è profetica. E Leone XIV, con i suoi primi gesti, sembra dire: è tempo che i pastori smettano di inseguire il mondo e ricomincino a guidarlo.